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Quel giorno di 33 anni avevo un impegno di famiglia nella nostra casa di campagna, ma mia figlia voleva a tutti i costi passare prima in un negozio di giocattoli fornitissimo che vendeva una piccola cucina di cui si era incapricciata. Il desiderio di quella bambina aveva vinto la mia stanchezza di madre e ci aveva fatto cambiare strada. Mi ricordo con precisione dov’ero e cosa stavo facendo alle 17:58 di quel giorno, quando un pezzo della A29 che collega Palermo a Mazara del Vallo - un pezzo che senza quel cambio di programma avrei percorso negli stessi minuti - saltò in aria nei pressi dello svincolo di Capaci, lasciando un cratere lunare e portandosi via la vita di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Da allora il 23 maggio è per me un giorno di pellegrinaggio all’albero di Falcone, un giorno amaro e sacro per tutti gli italiani. È una giornata di memoria e impegno, di rinnovamento delle promesse di giustizia e di forte risonanza con chi si sente tradito, solo e dimenticato dello Stato e tuttavia decide di restare dove le mafie prosperano, senza scendere a patti col diavolo.
Falcone era un innovatore. Seguiva i soldi di Cosa Nostra, quelli che puzzano di estorsioni, sfruttamento e silenzi. Rivoluzionò il modo di combatterla, intuendone l’organizzazione verticistica, i codici, le regole e usando le rivelazioni dei collaboratori di giustizia. Il maxiprocesso celebrato nell’aula bunker dell’Ucciardone, istruito insieme a Paolo Borsellino e al pool antimafia, è una pietra angolare della storia giudiziaria italiana. Il lascito di Falcone va tuttavia molto oltre le aule dei tribunali. Da servitore dello Stato, magistrato e uomo, ha seminato consapevolezza nelle istituzioni, nelle scuole, nel mondo del lavoro.
In questo tempo la battaglia contro la criminalità organizzata passa anche e soprattutto attraverso il lavoro, quello che manca e quello che toglie diritti. Le mafie, infatti, si insinuano nelle imprese, inquinando l’economia legale con il riciclaggio, la corruzione e i soprusi. Oggi abbiamo la certificazione antimafia e il codice degli appalti, che impediscono infiltrazioni e prevedono controlli stringenti negli affidamenti pubblici, per contrastare le collusioni e i subappalti illeciti. Ci sono i protocolli di legalità, firmati tra enti pubblici e associazioni di categoria, per prevenire e denunciare le pressioni mafiose nel settore produttivo. Non mancano le iniziative di formazione che coinvolgono imprese, scuole e sindacati per promuovere la cultura del lavoro. Senza contare il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e il suo significato simbolico.
Tutto questo è sufficiente per considerare onorato il sacrificio di Giovanni Falcone, affidandolo solo alla nostra memoria? Purtroppo no. Quel sacrificio è un impegno quotidiano che ci chiama tutti, che coinvolge istituzioni, cittadini, sindacati e imprese. Ogni volta che non ci voltiamo dall’altra parte di fronte a un’ingiustizia, ogni volta che denunciamo le piccole mafie che prosperano vicino a ciascuno di noi, allora sì siamo nel solco tracciato da Falcone. Contro l’indifferenza occorre coraggio e onestà. Ma come diceva lui “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Sta anche a noi decidere quanto essa sia vicina.